La vita
            

 

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 Il giovane Mauro è affidato a San Benedetto

 

      San Mauro nasce nella città di Roma dal Senatore e Console Eutichio (da altri Equizio) discendente dagli Anicii e dalla nobile e virtuosa matrona Giulia, nell'anno di grazia 512.  La madre, nel timore che il figliuolo si viziasse al contatto dei suoi coetanei, avrebbe voluto degli istitutori perché lo istruissero sotto i suoi occhi nelle scienze e nella virtù. Ma Eutichio, udite di già le meraviglie che operava Benedetto nel Monastero di Subiaco, decise di affidarlo a lui.
    Dio, come un giorno ad Abramo, fa sentire a Mauro, per i savi ragionamenti dei suoi genitori, la Sua potente ed amorevole voce: «Mauro abbandona per sempre la tua Roma e vieni a Me!  Esci, seguimi, che io ti additerò la via della santificazione».
    Così Mauro, all'età di dodici anni, assieme a Placido, figlio di Tertullo, parente di Benedetto, fu consegnato al grande Patriarca del Monastero di Subiaco, distante da Roma appena quaranta miglia. Prostrati, Eutichio e Tertullo, implorano da Benedetto, per i loro figli, il battesimo della vera nobiltà; parlano solo in nome dell'innocenza e della salute spirituale dei loro figli. Benedetto li alza da terra, li abbraccia, dà loro il bacio della pace, stringe in un solo amplesso Mauro e Placido, divenuti i primi due «oblati» del suo ordine. E certo che Benedetto, fin dal primo incontro, ebbe un affetto tutto speciale per Mauro e benché tra i suoi figliuoli non sia stato il primo in ordine di tempo, egli lo ebbe sempre in conto di suo primogenito per elezione. E perché questo? Perché in Mauro ravvisò la più perfetta espressione di quel tipo monastico che egli aveva concepito, il suo principale coadiutore nella grande opera intrapresa. Mauro fu preso subito dalla nuova vita e per la sua maturità di spirito e per la sua già notevole cultura poté assumere le prime responsabilità, per cui sorveglia, incoraggia i fratelli ed interpreta loro i comandi di Benedetto. Si può riferire a Mauro la bella espressione della Sacra Scrittura: «Essendo ancora fanciullo ho cercato la vera sapienza, il mio piede ha camminato per la via diritta ». Le ricchezze, gli onori ed i piaceri che avrebbe potuto avere dal suo nobile casato, li volle cambiare con la povertà, l'ubbidienza e la castità che gli offriva la vita religiosa. «Chi non rinunzia a tutto quello che possiede, non può essere mio discepolo» (Luca 14, 33).
    Tale appello di Gesù Cristo risuonò potente al cuore di Mauro e si spogliò volontariamente di tutti i beni. Con gli apostoli si metteva in spirito ai piedi di Gesù, tendeva con ansia l'orecchio alle sue parole, lo accompagnava passo passo, di scena in scena per vedere quello che faceva, come parlava, come istruiva, come trattava col popolo, con gli ammalati, coi fanciulli, coi peccatori. A questa maniera la meditazione della vita di Nostro Signore si convertiva per Mauro in vera scuola, dove egli studiava in tutti i particolari il suo modello, se l'imprimeva nell'animo, l'attuava e rispecchiava in tutto il suo contegno diventando così ogni giorno di più quel che doveva e voleva essere: un altro Gesù Cristo! Per amore di questo ideale e di questa santità, Mauro abbassò la fronte sotto la forbice che attorno attorno gli recise la bionda chioma.
    Per amore di questa santità, Mauro cambiò le laute mense paterne col pezzo di pane e la misura di vino assegnatagli giorno per giorno. Per amore di Gesù Cristo, Mauro cambiò le sfarzose vesti patrizie con l'umile saio monastico. «O me beato - esclamava Mauro - se pur di me potrà dirsi: Umiliò se stesso e si fece obbediente fino alla morte!».
 


Preghiera  e  lavoro

 

       Quale sarà tra i recinti del Monastero l'occupazione del nostro Mauro? Se volete un'idea esatta dell'operosità di Mauro, considerate che cosa sia un Monastero. E' la casa della preghiera e del lavoro, dunque è la copia della casa di Nazaret. Preghiera e lavoro fu per trent'anni la vita di Gesù Cristo; preghiera e lavoro fu similmente la vita di Mauro nei Monasteri di Subiaco e Montecassino. Dolce era vedere Mauro ora nelle comuni salmodie corali confondere, col grave canto dei monaci, la sua voce argentina, ora nella sua cella passare genuflesso le lunghe ore.
    Proprio in virtù della preghiera Mauro riesce a vedere un demonio indurre un monaco ad uscire dalla Chiesa all'ora della preghiera. Ci racconta San Gregorio Magno nei «Dialoghi» che in uno dei Monasteri che S. Benedetto aveva costruito vi era un monaco il quale non poteva stare raccolto in orazione, ma quando i frati si riunivano a pregare egli usciva fuori e con mente divagata si occupava di cose terrene e transitorie. Ripreso più volte dal suo abate, da ultimo fu portato a San Benedetto, il quale lo rimproverò aspramente della sua stoltezza; quegli però tornato al monastero appena due giorni tenne a mente l'ammonizione dell'uomo di Dio.
    Infatti al terzo giorno, ritornando a fare come prima, cominciò ad andare in giro nel tempo dell'orazione. Allora il servo di Dio, informatone dall'abate del monastero, esclamò: «Ecco che ora vengo costà io e lo correggo da me». Venne infatti e vide che ad una data ora, quando i frati, terminato l'Ufficio si mettevano a fare la meditazione, un fanciullo molto nero tirava per l'orlo dell'abito quel monaco, che non poteva rimanere in preghiera. Allora l'uomo di Dio chiamato segretamente Pompeiano, abate del monastero, e il buon servo di Dio, Mauro, disse loro: «E non vedete voi chi è che tira fuori di coro questo monaco?». Ed essi risposero: «No, padre». E Benedetto riprese: «Preghiamo Dio che vi faccia vedere chi è costui, dietro al quale va questo monaco». E dopo due giorni di preghiere, al monaco Mauro fu dato di vederlo, ma non così all'abate Pompeiano. Intanto il giorno seguente Benedetto, uscito di chiesa e trovato quel monaco che se ne stava fuori lo percosse col suo bastone per quella sua cecità di cuore. Da quel giorno in poi il monaco non si lasciò più persuadere da quel fanciullo nero.
    Del lavoro manuale, poi, che a quei tempi era ritenuto un servizio di schiavitù, San Benedetto ne aveva fatto una legge, sottomettendovi ugualmente lo schiavo ed il libero. Mauro, il nobile figlio di Eutichio, armato or di scure, or di mazza, invincibile e sereno e spesso senza che nemmeno ci badi, apre il cammino a tutte le buone opere del lavoro e della civilizzazione cristiana. Al lavoro manuale, Mauro accompagna il letterario. Nella medesima mano era bello vedersi alternare ora la mazza ora la penna. Con gli altri figli del gran Patriarca era tutto proteso allo studio e alla fatica di trascrivere gli antichi manoscritti. Fatica necessaria e sublime poiché ad essa il mondo letterario va debitore di tutto il suo patrimonio.
 


 

Umiltà  e  obbedienza  

 

   «Se non vi convertirete e diverrete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli». Mauro meditò profondamente tali parole del Divin Maestro e propose e mantenne di abbassarsi, farsi piccolo, credersi umile. Mai alterigia né sdegno, non ambizione né ricerca di precedenza, non preoccupazioni né disturbi di amor proprio. Come i fanciulli fu semplice, fiducioso, docile, buono, senza pretenzione; piccolo in tutto! Andava in cerca del Regno di Dio e perciò voleva la pace dell'anima, tendeva alla perfezione. «O Gesù - andava ripetendo - se io mi farò piccolo in tutto entrerò nel gaudio-eterno. Chi si umilia sarà esaltato». Un giorno, essendo rimasto nel monastero al posto di San Benedetto che ne era uscito per un'opera di carità, gli si presentarono i genitori di un fanciullo zoppo e muto, i quali, prostratisi ai piedi di Mauro, con le lacrime, imploravano la grazia della salute del figlio. Mauro, confuso, poggiò sul capo dell'infermo una stola che il Santo Patriarca gli aveva regalato in occasione della sua prossima ascensione all'ordine del Diaconato. Il fanciullo fu salvo e Mauro, umilmente, attribuì il miracolo alla virtù della stola di S. Benedetto. Mauro aveva meditato il detto scritturale «L'uomo obbediente riporta vittoria» e, con magnanimità e generosità, vincola e perfeziona la sua libertà con la volontà di Dio. Con la povertà offrì i beni materiali; con la castità i beni corporali, il proprio cuore; con l'ubbidienza i beni spirituali, la propria volontà, il proprio «io», il proprio giudizio! E Dio accetta e conferma facendo operare delle meraviglie al nostro Mauro. Narra S. Gregorio nel secondo libro dei «Dialoghi» che un giorno il monaco Placido uscì a prendere l'acqua nel lago. Ora accadde che mettendo egli senza cautela la brocca nell'acqua gli uscì di mano e mentre si sforzava per riprenderla precipitò nelle acque e subito la corrente lo tirò verso il centro del lago quasi per lo spazio che suole percorrere una saetta. Allora Benedetto che, quantunque chiuso nella sua cella ebbe per ispirazione di Dio conoscenza dell'accaduto, chiamò subito Mauro e gli disse: «Fratello Mauro, corri perché quel monacello che è andato per l'acqua è caduto nel lago, e già l'acqua lo trasporta lontano».
    Mauro, chiesta e ricevuta la benedizione, corse subito come gli era stato comandato dall'abate e, camminando sull'acqua, mentre credeva di camminare ancora sulla terra, arrivò fino al punto dove la corrente trasportava Placido, e presolo per i capelli in men che si dica ritornò a terra. Toccata appena la riva e raccapezzatosi di quel che era accaduto, guardando indietro si accorse che aveva corso sopra l'acqua e tutto tremante stupì di aver fatto ciò che egli non avrebbe mai  e poi mai presunto di fare. Ritornato quindi dall'abate gli raccontò l'accaduto. Benedetto attribuì tutto non ai propri meriti ma all'ubbidienza di Mauro. Questi invece diceva che la cosa era avvenuta soltanto in forza del comando dato a lui da Benedetto. In questa ammirevole gara di umiltà sopraggiunse arbitro il giovanetto salvato, il quale disse: «Quando sono stato tirato fuori dall'acqua io ho visto sopra di me il mantello dell'abate e mi pareva che esso mi liberasse».
 


 
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  •   Mauro proposto come modello agli altri monaci
     

  •   S. Benedetto manda Mauro da Cassino nella Gallia
     

  •   Morte di San Mauro


    
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